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C'è come un senso di pace assorta, quasi uno stupore interiore, tra gli intensi spessori di questi versi. Sergio Zavoli interpella il proprio esistere, tra rimembranza e sogno, muovendosi in un campo ormai gremito di affetti, personaggi, luoghi, eventi legati a tempi diversi, ma tutti qui uniti sulla mobile scena del suo testo. E poi le seduzioni adescanti dell'adolescenza, negli scenari marini così cari al poeta; la dolce figura della figlia, le immagini del padre e della madre risalite dalle trasparenze del ricordo; il riapparire da un remoto Novecento della figura di Mario Luzi in uno storico caffè fiorentino e l'emergere di altre presenze, come Eugenio Montale o Federico Pellini. Accanto a tutto questo, la continua attenzione alla realtà civile e incivile della nostra epoca, con i suoi anche tragici emblemi. Nello strenuo, composto rigore del suo procedere, Zavoli sa bene osservare se stesso anche quando afferma di voler dare un sotteso valore persino al silenzio, cioè a una sintassi di parole mute. Perché la parola, racchiusa nella sua necessità, sa imporsi in virtù del rapporto proprio con il suo contrario, il silenzio. Si tratta di una parola che esce dalla sua esperienza umana senza traccia alcuna d'enfasi o di letterario compiacimento.